Può un’immagine di luce nascere dalla paura del buio?

Nuova Galleria Morone, Milano, 2017

 

Nella project room della Galleria Nuova Morone Kikki Ghezzi ha allestito Chi, un lavoro elaborato nel corso degli ultimi mesi ma scaturito da un’esperienza vissuta dall’artista due anni fa. Il respiro e la dinamica di un’azione straordinaria, condotta dall’artista all’aperto e in totale solitudine, vengono ora ricondotti all’interno e restituiti nello spazio intimo e raccolto della saletta ipogea, racchiusa come in un abbraccio da reti da pesca e fili blu.
L’impatto visivo delle immagini, stampate in diversi formati ma con tecnica e supporto uniformi, è giocato su pochi elementi indispensabili: l’energia del luogo, il promontorio di Cape Cornwall sulla costa atlantica, dove nell’agosto 2015 Kikki ha trascorso un periodo in residenza; la monumentalità dell’intervento ambientale site specific su una casa abbandonata e ora patrimonio del National Trust, da cui il titolo del progetto: Chi (parola Cornish che significa “casa”); il magnetismo del colore del rivestimento, quel blu che secondo l’artista “è colore di amore, un colore che ti solleva lo spirito e ti fa respirare”; infine la costruzione delle immagini, invenzioni che colgono infiniti scorci, vedute e dettagli materici di quell’azione titanica, insieme al bisogno di prendersi cura dell’edificio, in ogni suo minimo dettaglio.
Accanto ad esse, ecco il display più concettuale del contenitore, assai caro a Kikki negli ultimi anni. Di volta in volta libro, valigetta 24 ore o cartelletta, esso è generato dalla spinta affabulatoria come dal bisogno di riordinare esperienze diverse, dando loro una casa. L’artista non si stanca di sperimentare per poter raggiungere una dimensione di completezza: “Scrivere del mio lavoro per cercare di capire il mio lavoro”.
Chi è scaturito istintivamente in seguito al contatto fisico ed emozionale con il luogo ed è stato sviluppato durante la residenza, lavorando giorno e notte, con pazienza e dedizione, in simbiosi con la tabella delle maree. Unico accompagnamento sonoro persistente era lo sciabordio delle onde sugli scogli. Il proposito di avvolgere tutta la casa con un materiale “trovato” come le reti da pesca, fissandola alle rocce e, simbolicamente, riparandola, ha dovuto assecondare i ritmi inesorabili della natura, unica testimone vivente dell’intera azione dell’artista. Kikki spiega: “Il mio progetto iniziale era di capire se riuscivo a stare da sola in una situazione di totale isolamento, avendo io paura del buio”. Al termine della residenza, approda a una certezza: “più ti guardi dentro e più trovi quello che cerchi, più il buio si trasforma in luce”. Dunque il cammino introspettivo non conduce all’isolamento, ma alla conquista di una nuova consapevolezza, dando voce a una storia quotidiana e condivisa di oscurità e frammentazione, alternate alla luce e a una possibile trasformazione.
L’idea di Kikki Ghezzi di compiere un’operazione protettiva nei confronti della casa, in cui il fluttuare dei fili evoca quello delle onde, in certo modo partecipi dell’opera, è vicina a certe azioni all’aperto ideate da esponenti delle neoavanguardie concettuali, poveriste e processuali tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Azioni nel paesaggio naturale o in quello urbano, sempre effimere e contingenti, spesso rimaste sulla carta e tuttora chiuse nei cassetti degli autori o di nuovi archivi. Analoghi sono i concetti di processualità e di transitorietà impliciti nel lavoro, nel caso di Ghezzi direttamente legati al ritmo delle maree; analoga è poi la scelta di affidare alla fotografia la testimonianza dell’azione. Di quelle sperimentazioni si sono invece affievoliti lo spirito collettivo e il tentativo di stabilire relazioni reali con lo spazio, con il territorio di azione e con un pubblico nuovo.
Nell’approccio di Kikki emergono, oltre al bisogno di confrontarsi con se stessa, quello di prendersi cura di qualcuno e di qualcosa, partendo dagli affetti che la circondano e arrivando alle memorie vicine e lontane, in particolare quelle legate alla madre e alla nonna. Anche la componente intima e diaristica, da tempo irrinunciabile per l’artista, lascia trapelare tale necessità nel riferimento esplicito al concetto di “mother bird”, alla necessità di accudire il proprio nido e di non risparmiarsi di fronte al richiamo delle cure materne.
Ed è qui che il progetto Chi si connette con il resto della ricerca dell’artista. Per Kikki la casa è diventata la tela su cui agire, esattamente come per gli esponenti della land art le distese di sabbia o di roccia fungevano da tela, schermo o palcoscenico. Avvolgere la casa con reti e corde, in un laborioso corpo a corpo, equivale ad accumulare ossessivamente tratti su tratti, trovandosi a una distanza ravvicinata dal supporto, come accadeva nei suoi disegni di un tempo e come accade nei dipinti recenti, nati in Virginia nell’estate 2017. La percezione comune, all’aperto o tra le pareti dello studio, è quella di trovarsi in un altro tempo e in un altro spazio.
E qui si torna alla domanda iniziale: “Può un’immagine di luce nascere dalla paura del buio?”. “Sì”, conferma Kikki Ghezzi, perché la tensione accumulata, pronta a sfociare nel dramma, si allenta via via fino a una risoluzione, all’arrivo della luce. Una luce che ogni volta trasforma una massa confusa in colore pulsante e definisce uno spazio entro un magma confuso.

Sara Fontana

Juliet Magazine

October – November, 2014 |

Kikki Ghezzi’s recent series of work includes paintings focused on roots, branches and driftwood, and installations of delicate suspended sculpture inspired by the same earthbound forms. The installations are constructed from pale silks and stretchy fabrics, married with delicate joined wooden dowels. Forming ribs, the dowels underpin and shape draped cloth that stretches taut and smooth like skin over bones. The cloth is suspended and floating around he armature, and in places, caught and lifted. In some structures, the artist places a single piece of root inside, allowing the sheer cloth to fall lightly around the internal component.

Ghezzi assembled interior wood frames in her studios in New York and Italy, then pulled and gently twisted fabrics to cover them, allowing the wooden structure within to give inherent expression of the form. Semi-transparent material gently layered over the armature, strained between the dowels, or gathered and drooping, explores the same forms as her vibrantly colored paintings. These installations further investigate the shapes of roots removed from the canvas, liberated from the ground.
Ghezzi’s installations hover and float like dancers, bodies arched and twisted. Near the ceiling, they are drifting mirrored images of the shapes in her paintings, drained of color. Hanging suspended, these installations are as ephemeral and gauzy as the painted roots are substantial and crevassed. The installations demonstrate Ghezzi’s reverence for the natural forms of roots and branches, which she paints in luscious, sensual still life studies. Here the root form is expressed as light and transparent, rather than solid and dimensional as they are shown in paint. Hung like spirits that are caught above the viewer, fabric envelops the armatures, creating internal spaces, and at the edges, fingers of wood emerge from inside.

Ghezzi’s paintings examine curved or twisted roots and she repeats their shapes against unadorned backgrounds, placing them centrally on the canvas. The series of roots come from a spiritual place. She describes a “constant dialogue with the work, my mirror image, [that] allows me to see and connect to the roots of who I am.” Through her gestural paintings, Ghezzi conveys the idea of flesh with luscious surfaces that capture light composed of layered colors. In contrast, her installations reveal how meandering light plays on colorless, transparent surfaces. Ghostly forms hover at the ceiling, yet evoke earthbound roots, an airy reflection of what lies below. Liberated from color, and expressed as pure shapes, the simple white coverings float above our heads. Hung from the ceiling, or laid gently on the floor, they are spirits escaped from the artist’s imagination, engaging the invisible aspect of her painted roots.

curated by Lisa A. Banner
independent curator and art historian.
She works with old masters and contemporary art, and has lectured at The Frick Collection, Morgan Library, Metropolitan Museum of Art, Courtauld Institute and Meadows Museum.

 

Download Juliet Magazine

Kikki Ghezzi Roots

Skira Editore, 2014 |
“I have been painting and drawing roots that take life in a magical way and become fantastical creatures, full of humanity. They are not loud, they look at me quietly in the hope of being seen”. Kikki Ghezzi

“Roots take on many forms in paint through Ghezzi’s imagination, but they reveal a world that is extracted, and removed from its flourishing universe, when a life force connected that root to the stem and trunk above it, as it lay buried in the earth, or when a flower or tree grew from its efforts below the surface”.
Lisa Banner

“Because Ghezzi exploits the anthropomorphic qualities of her subjects, her roots become stand- ins, not only for herself, but for the human figure in general. Finding the human form in their bulbous trunks and distorted limbs, Ghezzi uses her motif to evoke aspects of body and mind”.
Nancy Grimes

“Le radici disegnate e dipinte sono quelle raccolte dall’artista durante le sue passeggiate, ma un avventuroso processo creativo ne distilla suggestivi organismi in divenire, bloccati in uno statico incanto”.
Sara Fontana

“Kikki Ghezzi si accosta alla memoria vitale delle radici attraverso un flusso lineare, come se la loro generatrice non fosse la sedimentazione linfatica, ma un soffio gassoso e, dunque, si volesse rappresentare non la loro materia, ma quasi la loro anima, pervenendo alla forma attraverso la costruzione di una progressiva stratificazione di livelli e onde”.
Stefano Cusatelli

Sich einwurzeln – Radicarsi – Grounding

September 2015 |

The Power of the Center

Sara Fontana

An artistic journey that seemed to have crystallized around painting is expanding into an exploration of other media. Painting, drawing, embroidery, installations, prints, papier collé collages, and artist’s books, traversed by writing and nourished by readings and heterogeneous visual sources, model a harmonious setting, hovering between the physical and the immaterial. It is a space in which Kikki Ghezzi hones her reflections on identity, strengthened by a new freedom and awareness. Pink is the predominant color, pink the experiences, images and objects that fill it, starting from a bewitching “femme-maison”. The series of prints is an accentuation of that continuous reticular line refined in the latest drawings with “portraits” of roots, to which is added a study of color perception. Dialoguing with previous research is the new series of oil paintings -from Celestial Roots to I am That I Am to Power of the Center I and II -where memory traces have now been transfigured, arranged along a crest between naturalism and mysticism, and where the gesture and the action unleash centripetal forces, without ever slackening control over the composition. The artist then turns to the motif of the case, of a Duchamp-like memory and model, and develops two installations from it brought to life by the intervention of the visitor. Here we discover that the root has not in fact been dissolved into the image on the canvas. Present and tangible, it is merely waiting to be revealed. Into this dialectic of internal/external, visible/invisible, dream/reality are slotted the artistic figures who, according to Ghezzi, inspired this work of hers more than any others: in addition to the already-mentioned Marcel Duchamp -an almost obligatory evocation -are Georgia O’Keeffe and Louise Bourgeois, masters, in different ways, of letting the organic and the abstract rub shoulders, and of superimposing the female body on the forms and forces of the Earth and Nature.

The enracinement of Kikki Ghezzi

Ilaria Riccioni

According to Simone Weil, l’enracinement is one of the deepest yearnings of the human soul, which the West systematically began to assault back in the early 1900s, undermining an invisible potential, universal community. For Weil, l’enracinement, or the act of putting down roots, not only has a personal implication linked to the survival of the individual, but indicates how a physical place can respond to needs for spiritual nourishment, an impalpable interweaving of relationships which, starting from a personal level, operates in the universal. In this sense, Kikki Ghezzi’s work seems to hark back to that same need, even if triggered by quite different motives. This exhibition presents the artist’s observation of the process of re-elaborating her roots, a personal journey that becomes universal. The root as symbol and object becomes the guiding thread of a creative journey through which the artist questions herself -and us -on our origins and the need to be reborn from ourselves to acquire citizenship in change: what is the right distance from our roots? The ambivalent oscillation between the past, as the “first root” that nourishes, and personal experience directed towards the new, becomes necessary to “transform fears into love” and manifest these in a pictorial act that plays on the emotional power of colors. This process is underpinned by relentless work on memory that prepares for cosmic and universal consonance, leaving artistic acts and objects in its wake. The objects show Kikki Ghezzi’s artistic style: a “home-valise”, as an alchemical container that transforms the pictorial work into an artistic act, with a nod to Duchamp, and a “root-valise” in which territory becomes space, with memory traces transformed into new stimuli. On the road from rooting to uprooting are two witnesses: a printed mirror that documents changes without fixing them, letting them go, and a book drawn with sentimental strokes. Out of the second case comes a pink installation oriented towards the sky; in the heart of the installation sways a red root, suspended, uprooted; it seems to wish to manifest what is not normally visible, while still remaining earth-bound. These may be invitations to reconsider the meaning of territory as space, of relationship as a changing action; the meaning of belonging enlarged as an idea of Franciscan brotherhood. Omnia mea mecum porto, Kikki Ghezzi seems to be telling us, transforming an oft-tormented theme into a creative gesture traversed by dialoguing colors, numeric correspondences, prints of different colors; her case-containers are functional and symbolic objects representing both material uprooting and enracinement in the heart, within themselves; while serving also as carrying cases between the personal and the universal. It symbolizes a personal path re-inventing origins that seems to intuitively embrace the uprooting of globalized society, the complex identities that move within it, and the growing lack of territoriality in means of communication, including historical and political questions that the Alto Adige region incarnates as a borderland.

Radicarsi_De
Radicarsi_Eng
Radicarsi_Ita

Lettera sulla medietà sublime

Gentile e cara Kikki,
All’origine del pensiero e quindi, si parva licet, della spesso sedicente Civiltà Occidentale, c’è una risata. Ce lo racconta Platone: è quella della “servetta trace”, che non potè trattenersi vedendo Talete cadere in un pozzo mentre passeggiando, rapito, perscrutava l’insondabile abisso celeste. Il cielo e il suolo di Mileto, con le loro profonde insidie, furono la scenografia di un aneddoto di fondazione e la prefigurazione, già allora comunque riassuntiva, di quello che l’uomo è sempre stato: una creatura di superficie, presa in una sorta di galla, di patina veleggiante tra gli abissi prospicienti delle sterminatezze eteree e ctonie. Omero diceva di noi che siamo la stirpe che calpesta il suolo, per definizione differenziandoci dal divino e consegnandoci alla necessità dell’appoggio, dell’equilibrio, di una base su cui fondarci.
Il tuo lavoro porta continuamente a galla questi antichi ancoraggi, e i pensieri che ad essi sono connaturati. Come a pelo d’acqua, sul mare, negli avvallamenti d’onda essi sembrano riassorbirsi ma poi, sulle creste, riappaiono; negli avvallamenti sembra che una complessità centripeta e agglutinante converga in un punto di scomparsa, accondiscendendo a un desiderio irrinunciabile di sparizione; poi ecco, invece, la conversione esplosiva, centrifuga, che ci riconsegna la possibilità di ricrearsi del mondo, ma nei limiti del visibile, senza l’eccesso disperdente, quasi scellerato, che la mano aperta e il cuore spesso spiantato dell’arte a volte impongono.
Lo stato di medietà, la condicio dell’uomo, impone invece una pietas alla forma dell’arte, che la stabilizzi in un punto di compensazione del desiderio, di consapevole accoglimento nel suolo su cui poter appoggiare il proprio passo e, fattasi conditio, ci avvolga come una pelle che ci protegga da ogni trascendenza: quella esterna degli accadimenti del mondo e delle infinità siderali, e quella interna delle intimità, spesso non meno insondabili, del nostro corpo e della nostra mente. Lì (qui) sotto la pelle infittiscono, proliferano comunità rizomatiche: il sistema arterioso e venoso, per esempio, che da bambino mi divertivo a seguire con lo sguardo, sulle tavole del dizionario, da una delle periferie più estreme al cuore e viceversa; aprono profondità quasi terrifiche provvidamente mitigate dalla comunanza, dalla consuetudine con il fuori da noi – il cielo con il suo intimo celeste rizoma tracciato dalle costellazioni che rapivano lo sguardo di Talete; la Terra, la cui linfa magmatica radica nei canali che ne innervano la crosta; le piante, che radicano in cielo e in terra.
Mi viene alla mente il gesto di disperante solidarietà che anima “continuerà a crescere tranne che in quel punto” di Giuseppe Penone, con il quale non hai solo delle comunanze formali, dove si fissa un indefinito luogo di giunzione asintotica in cui la mimesi, l’analogia non riescono ad annullarsi nell’identità e per questo il fuori da noi rimane tale e si conserva in sé, ma è sempre per questo che per mimesi, per analogia, in questo fuori da sé si contempera l’umano.
La risata di Mileto, e la tua, sono in questo punto, dove l’inspirazione diviene espirazione, la diastole, sistole; non ci può essere inspirazione infinita, noi abbiamo dei limiti, dobbiamo racchiuderci in un quadro, farci teca in una valigia. Noi, come ci insegna Leopardi, possiamo “fingere” l’infinitudine solo facendoci escludere il “guardo” da “questa” siepe.
Il tuo lavoro procede, nella temperie rizomatica della rete che ci iperconnette e “sfinisce”, e che si costituisce sempre più come un ossessivo fantasma dell’invisibile, della definitiva fine delle analogie e della nostra giunzione identitaria con il fuori di noi, a rendere visibile la consuetudine con il finito che apre all’umano i suoi limiti.
Un grazie di cuore.
Tiziano Olgiari

lorem ipsum

Questa è una pubblicazione

Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Suspendisse ut condimentum leo. Mauris bibendum tincidunt justo, luctus auctor ligula condimentum quis. Nunc tincidunt tellus consectetur, rutrum urna ut, consectetur orci. In sit amet convallis risus. Phasellus ut elementum ligula, in venenatis ex. Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Aenean at arcu id mauris suscipit eleifend. Sed lacinia enim non lobortis consectetur. Mauris id posuere massa. Aliquam erat volutpat. Pellentesque habitant morbi tristique senectus et netus et malesuada fames ac turpis egestas. Vivamus vitae dignissim odio. Praesent sed sem nunc.

Curabitur porta, est quis pellentesque ultrices, lectus nibh lacinia enim, in placerat metus magna sit amet nisi. Phasellus augue leo, porta vitae pellentesque quis, rhoncus sed ligula. Aliquam vitae lacinia dui, id aliquet eros. Sed magna velit, semper id eros vitae, tincidunt lacinia magna. Etiam varius, ex id imperdiet feugiat, ipsum sem consequat elit, nec molestie quam lacus et orci. Nam mauris magna, ornare in lorem eu, pharetra sollicitudin urna. Proin ut maximus augue. Phasellus vehicula faucibus erat, et imperdiet tortor fermentum eu. Pellentesque pharetra eleifend cursus. Ut hendrerit mi congue ornare lacinia. Quisque at enim rutrum, porttitor lectus et, tempus odio. Ut mauris massa, rhoncus et semper ac, ullamcorper a tellus. Proin lectus diam, dapibus nec odio et, sagittis dictum nulla.

Nam sit amet elit leo. Nam nunc justo, vehicula sit amet odio at, laoreet sollicitudin diam. Vestibulum pretium augue ex, et vulputate mauris iaculis et. Sed at rutrum arcu. Aliquam lobortis tincidunt libero vitae pharetra. Pellentesque a dapibus sem. Suspendisse et pellentesque lorem. Etiam eleifend convallis odio eget efficitur. Donec condimentum massa egestas lacus varius, sed maximus est tempus. Integer scelerisque eu quam quis vestibulum.

Curabitur id elit fringilla, lobortis sapien fermentum, vestibulum nunc. Nulla nec velit pulvinar, porttitor quam non, aliquam diam. Nam pretium arcu sed ex ornare pretium. Proin ac lectus luctus, vestibulum ligula a, pharetra enim. In finibus gravida nisi, et dapibus erat congue vitae. Aenean vulputate imperdiet diam ac volutpat. Quisque at viverra justo. Nunc tempor bibendum aliquam. Cras semper dictum interdum. Interdum et malesuada fames ac ante ipsum primis in faucibus.

Etiam convallis molestie massa, eget elementum tortor fermentum non. Etiam et nibh at leo imperdiet sollicitudin quis quis erat. Suspendisse sed libero quis tortor sagittis tristique. Ut quis cursus nisl, et gravida leo. Mauris in viverra risus. Vestibulum lacinia sem id interdum pharetra. Etiam pellentesque malesuada sem, eu viverra nibh tristique eget.